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Dal Mare Nostrum a internet: i Dalmati continuano a navigare

di Adriana Ivanov Danieli

Da bambini, fin dal primo approccio con la storia, ci hanno insegnato che le civiltà sono nate e si sono sviluppate sull’acqua, fosse quella del Nilo o del Tigri e dell’Eufrate o quella del Mediterraneo, perché l’acqua, non la terra, ha costituito il primo e più agevole mezzo di comunicazione, in epoche ancora prive di vie terrestri. Il mare dunque, è l’elemento di congiunzione tra le terre, in particolare per il mondo della Dalmazia, terra di frontiera per definizione, chiusa alle spalle dalla catena delle Alpi Bebie/Velebit, ma aperta verso il litorale adriatico, ricamo di coste flessuose e di isole, languidamente immerse in un mare blu come il cobalto, che sfuma nel verde smeraldo all’interno di baie e calette ombreggiate da pini marittimi, o si illumina di turchese sopra i rari fondali sabbiosi.

Nell’ ottica della Geostoria, la Dalmazia fu cerniera tra Est e Ovest, tra il bacino del Mediterraneo e quello danubiano, tra alfabeto e civiltà latina da un lato e dall’altro alfabeto cirillico e mondo slavo – comparso sulla scena della storia più tardi, dopo la caduta dell’Impero Romano -, tra religione cattolica e quella ortodossa e islamica, tra l’ economia del vino e dell’ olio e quella della birra e del sego, fin dalla notte dei tempi tuffata nel Mare Adriatico. Liburni e Illiri ai primordi lo hanno solcato costeggiandolo con le piroghe, in seguito con le liburne, galee di pirati dalmati apprezzate e utilizzate in seguito dai Romani nella Marina militare, da naves onerariae,che esportavano nella penisola italica i pregiati vino e olio prodotti nelle villae rusticae dei latifondisti senatoriali romani disseminate sulla costa adriatica orientale. Una “pianura liquida” l’Adriatico, nella definizione dello storico francese Fernand Braudel, ponte tra terre e popoli, perché sulle navi non navigano solo le merci, ma anche e soprattutto gli uomini, le idee, le conoscenze, fino a renderlo una koiné, come lo furono l’impero e il Mediterraneo di Alessandro Magno.

Tale diverrà l’ Adriatico stesso nei secoli della Serenissima: lo Stato da Mar. Nei pittoreschi mandracchi, porticcioli dove trovano rifugio le barche dei pescatori e nei porti (che la costa frastagliata offre sulla riva orientale) delle grandi città costiere, Zara, Sebenico, Traù, Spalato, giù giù fino a Ragusa, orgogliosa della sua autonomia, ma anch’essa dalmata in tutte le sue espressioni, linguistiche, culturali, letterarie, scientifiche, giuridiche, e ancora a Cattaro nella Dalmazia montenegrina, un popolo di navigatori scrive la sua storia sul mare, nel tumulto dei venti che la scuotono: in particolare lo Scirocco – che proviene dalla Siria -, il Maestrale, che soffia, per chi si trova all’altezza del Canale d’Otranto da Nord Ovest, dalla città maestra, Roma magistra, dalla Bora che a Nord Est cala dai monti Velebit e rissosa, irascibile, implacabile, spelacchiando le coste e soffiando da terra verso il largo, increspa e fa ribollire le onde, fino a ridurle in pulviscolo d’acqua. Questo vento dominatore degli spazi può manifestarsi in varie tonalità, che il dialetto veneto, mai sopito in una terra così a lungo veneziana, modula nei cinque gradi Borin, Borignolo, Bora, Boron, Uragan de bora. È un mondo roccioso e aspro, ma capace di offrire struggente dolcezza. Tali caratteri hanno influenzato nei secoli il temperamento degli abitanti, rudi marinai e appassionati canterini, come le cicale che nei mesi estivi fanno da colonna sonora al paesaggio.

“Homo Adriaticus” definisce lo studioso Sante Graciotti, recentemente scomparso, ciascuno di noi Dalmati, forgiati a vivere nelle asprezze del territorio, ad affrontare le incognite della navigazione, a convivere nella complessità etnica di un territorio misto, melting pot che Venezia rese possibile, basando l’economia sugli slavi immigrati produttori di beni e sugli italofoni scambiatori di beni, armatori, mercanti, marinai. Come ricorda il prof. Egidio Ivetic, già nel 1174 la Tabula Rogeriana del geografo arabo Muhammad al-Idrisi definisce l’Adriatico “Golfo di Venezia”, che tale resterà nella cartografia fino al Settecento: un grande lago veneziano. La talassocrazia della Serenissima, il dominio delle acque, fu assicurato dai patti di dedizione delle città costiere e garantito dal rispetto di diritti, istituzioni e privilegi di origine comunale da parte della Dominante. Studenti dalmati popolarono l’Ateneo patavino, definito da Tommaseo, qui laureato, “ l’Università dei Dalmati”; artisti, sia pittori che scultori che architetti, letterati, scienziati, giuristi, percorsero la rotta adriatica nei due sensi, esportando e importando cultura. A Lepanto nel 1571 l’Antemurale marino opposto da Venezia ai turchi contava anche sette galee dalmate.

Dopo la caduta di Venezia, sotto l’Austria l’Adriatico fu navigato in lungo e in largo, congiungendosi ai traffici globali, soprattutto con l’avvento dei piroscafi a vapore e lo sviluppo dei grandi porti, di cui va riconosciuto il merito all’Impero Asburgico, nonostante la politica di slavizzazione avesse segnato per sempre la possibilità di coesistenza pacifica instaurata da Venezia, scatenando gli opposti nazionalismi.

Nel “Secolo breve” l’Adriatico sarà solcato dalle navi da guerra dei due conflitti mondiali, a parte il ventennio interbellico in cui Zara con alcune isole sarà annessa all’agognata Italia e quotidiani collegamenti marittimi con Trieste e Ancona faranno sentire la città meno sola, meno enclave di quanto avessero deciso a Rapallo i Signori della guerra. Poi, con i bombardamenti del ’43/’44 commissionati da Tito agli alleati anglo-americani, il mare prospiciente Zara si colorerà di sangue e con l’arrivo dei partigiani comunisti di Tito sarà solcato dalle funeste imbarcazioni che porteranno centinaia di zaratini ad essere inghiottiti con una pietra al collo nelle Foibe d’acqua.

E lo sarà infine dalle navi dell’Esodo, che ci portarono via quasi tutti, verso la patria ideale, l’Italia, verso la libertà.

Ora che la Casa comune europea ingloba anche Italia e Croazia, noi nutriamo la speranza che l’Adriatico torni ad essere pienamente elemento di congiunzione tra le due rive. Il mondo digitale ci offre l’opportunità che i Dalmati, navigando nel mare magnum di Internet, recuperino pienamente il loro ruolo storico, facendosi mediatori di cultura e di conoscenza storica, anche di quella della loro tragedia troppo a lungo misconosciuta. Lo auguriamo agli ardimentosi tra noi che hanno intrapreso questa via: che il vento gonfi le vele e la navigazione sia prospera e proficua!